Il profilo aguzzo delle Mainarde si staglia maestoso sopra la valle del Volturno. Ai suoi piedi, in uno spiazzo di erba, un cippo bianco segna il punto in cui cadde dilaniato da una mina tedesca, alle 5 di una gelida mattina del 1° dicembre 1943, Giaime Pintor mentre, con altri 4 compagni, cercava di oltrepassare le linee nemiche per ricongiungersi alle prime formazioni di partigiani operanti nel Lazio. In quelle concitate ore non valsero a niente i disperati tentativi per recuperare il corpo dei compagni di spedizione Paolo Buffa e Max Salvadori: Giaime resterà a lungo insepolto in mezzo al campo minato, «riverso in terra con il viso perfettamente riconoscibile». Dopo più di due mesi, a Roma, sarà una lettera del maestro di pianoforte Bruno Scanferla a convocare il 18 febbraio 1944 il fratello Luigi, futuro direttore de «il Manifesto», in uno scantinato per informarlo della terribile verità sul giovane partigiano, di cui da settembre non si avevano notizie: In quella atmosfera irreale, alla luce fioca di una lampada, cominciò un assurdo racconto. Un piccolo gruppo, una notte di dicembre, uno sperduto paese del sud, un fronte di guerra da attraversare, un sentiero di campagna lungo un torrente, un campo minato sfuggito ai ricognitori, uno scontro a fuoco, un’esplosione nell’oscurità. E alle prime luci dell’alba il corpo riverso in una vigna sotto un muretto. Era una successione idiota di parole che non combinavano in nessun modo con l’immagine di mio fratello. Chi lo conosceva come me non poteva scoprirlo all’improvviso così vulnerabile, in quel luogo romanzesco, in quella posizione innaturale, insensibile a ogni richiamo, inerte nel giorno e nella notte sotto un cielo invernale. Non ho mai assimilato neppure dopo molti anni uno scenario così inverosimile. Quel racconto continuò con molti dettagli, che c’entravano gli inglesi, che c’era una mappa disegnata da un sopravvissuto, che c’era da qualche parte una lettera per me, che ne dipendeva la vita di altre persone paracadutate oltre le linee, che perciò bisognava tenere segreta la notizia. Dunque era passato molto tempo ed ero stato tenuto nell’ignoranza, chissà che fine aveva fatto quel corpo insepolto (Pintor L. 1991, pp. 35-36). In un’alba più piovosa del solito Luigi torna a casa «con un pensiero fisso», trovare le parole per dirlo alla madre: «era una donna saggia, ma questa morte dopo quella di nostro padre era un’esagerazione » (Pintor L. 1991, p. 36). E quelle parole, come quelle lasciategli dal fratello nella famosa ultima lettera, segneranno la sua vita e ne determineranno un destino che forse avrebbe voluto diverso.
Dopo il passaggio del fronte, «quel corpo insepolto» verrà protetto dalla pietas dei contadini di Castelnuovo al Volturno che, con coraggio, recupereranno le spoglie di quel giovane così diverso ma ormai affratellato a loro dalla comune lotta per la salvezza, e le tumuleranno ai margini di una vigna incolta, sotto una piccola croce di legno. Toccherà a Zio Fortunato, il composto Bibliotecario del Senato, presenza preziosa nella vita di Giaime e poi devoto nume tutelare della sua memoria, raggiungere Rocchetta in un freddo inverno del ‘45, insieme a Luigi, attraversare le macerie della guerra, chinarsi sulla fossa per riconoscere in quel partigiano con le «galoches nello zaino» l’amato nipote, e seguirne il feretro fino al cimitero del paese (Pintor L. 1991, p. 37).
Una vecchia fotografia immortala la dignità di questo momento: su un ponte di legno, tra alberi spogli, si snoda un piccolo corteo, la bara portata a spalla dai pochi contadini rimasti e dietro donne e bambini.
Molti anni dopo, ripensando alla compostezza di questo funerale, Luigi vi riconoscerà «il significato rivoluzionario non solo del gesto di Giaime ma della sua figura complessa di intellettuale »: gli abitanti di Castelnuovo che, pur «lontani dal conoscere le sue opere e i suoi scritti», danno l’ultimo saluto a Giaime, rendono omaggio non ad un mito o ad un’icona ma ad un ragazzo di 24 anni che ha combattuto per la libertà di tutti, «uguale a loro e ai loro morti nella loro campagna, partecipe e vittima della loro stessa battaglia». Per questo appare agli occhi commossi di Luigi «una cosa naturale e giusta quella di vedere il funerale di Giaime svolgersi in un paesetto contadino d’Italia quasi distrutto, e vedere deporre sopra la sua bara una corona di metallo con la dedica “I Castelnovesi a Giaime Pintor”» (Pintor L. 1947, p. 61). La mina tedesca che avvolge la caviglia di Giaime e poi il cippo che verrà elevato su una terra che non accoglie più le sue spoglie, traslate a Roma nel ‘48, chiudono il cerchio della vita di questo giovane straordinario e aprono le porte a quello che sarà un destino sui generis: la creazione del ‘personaggio Pintor’. La complessità, ma anche la poliedricità fruttuosa della breve vita di questo giovane intellettuale è stata infatti per lungo tempo offuscata dal gesto finale, da quella marcia tragicamente interrotta a Castelnuovo, e la sua esistenza ha finito per essere così a lungo racchiusa nell’ultima, bellissima lettera al fratello Luigi, nella quale sono espressi i motivi di questa scelta.
Sull’altare della morte eroica è stata a lungo sacrificata la capacità di analisi della figura a tutto tondo di questo giovane di straordinario ingegno «capace di frequentare con la stessa familiarità la dea ragione e le eroine romantiche» (Pintor L. 1998, p. 59), brillante traduttore, fine saggista, recensore, autore di opere drammaturgiche e di sceneggiature, organizzatore instancabile alla “scuola delle invenzioni” (la Casa editrice Einaudi), pensatore niente affatto dogmatico e non riconducibile a nessun partito e per questo fondamentale trait d’union tra varie fazioni. Un giovane dalla natura determinata e concreta, ma anche inquieto, curioso, che amò spaziare nelle frequentazioni, nelle amicizie e nei rapporti sentimentali, alla ricerca costante di un senso che sembra faticare a trovare, senza tuttavia perdere mai, nemmeno negli anni più drammatici, la sua «virtù meno apparente e più seria, il […] costante piacere di vivere» (Pintor a Filomena D’Amico, in Pintor G. 1978, p. 178).
«Una figura originalissima, di difficile comprensione», affermava Luigi Pintor nella testimonianza rilasciatami a dicembre del 1995, «quasi un personaggio sottile da romanzo, una creazione letteraria, che andrebbe interpretato in chiave poetica. Così terribilmente razionale eppure capace di tradurre in quel modo i romantici tedeschi. Partecipe del momento storico eppure sempre indipendente e autonomo» (Pintor L. 1995, p. 339).
Ma questo è stato il destino di Giaime. Essere oggetto di un costante ripensamento e di etichette difformi, da santino della resistenza a voltagabbana convertitosi solo in extremis al fascismo, in una carambola di interpretazioni apparse – come avrebbe poi scritto Luisa Mangoni – «sempre in momenti cruciali della storia e della cultura e della politica italiane, come ad alludere a un confronto tuttora necessario, alla opportunità di tener conto anche di quella voce in periodi di ripensamento e di crisi» (Mangoni 2000, p. vIII).
Da quella fredda mattina a Castelnuovo, Giaime Pintor ha iniziato a perdere consistenza biografica e, attraverso momenti alterni, ha subito un’opera di monumentalizzazione che lo ha portato ad apparire da un lato con la leggerezza di un personaggio letterario e, dall’altro, con la consistenza ingombrante di un mito prima, di un anti-mito dopo. Sin dall’immediato dopoguerra, infatti, a costruire spontaneamente questo monumento sul piedistallo dell’ultima lettera, assunta subito tra i documenti più importanti della nostra Resistenza, è stata la numerosa bibliografia, tra testimonianza e giudizio critico che, a partire dalla liberazione di Roma, iniziò ad essere pubblicata, rinnovandosi e amplificandosi negli anniversari della sua morte, celebrati intorno al cippo con solenni discorsi, e in occasione della pubblicazione dei sui scritti, raccolti e resi noti grazie alla cura dell’amico Valentino Gerratana nel 1950 (e poi 1961, 1965, 1975 e 1977).
La creazione del personaggio Pintor è stata del resto un’operazione a cui facilmente si prestava questo giovane di straordinario ingegno, affascinante e affascinato dall’intelligenza, caduto mentre sotto i servizi inglesi tentava di raggiungere la zona occupata, capace, pur nella concitazione del momento, di raccogliere le idee e lasciare un’importante eredità morale come quella contenuta nell’ultima lettera. Il nome di Giaime è stato così velocemente intrappolato nella gabbia del paradigma antifascista, e la sua “ultima lettera”, da lettera-testamento delle sue qualità morali è diventata la bibbia dell’intellettuale engagé, in cui una nuova generazione poteva e doveva riconoscersi. Ma in tutto questo veniva accantonato l’uomo, anzi il giovane di genio, e il mito assorbiva l’attenzione che avrebbe dovuto essere tributata anche alla sua persona e alla sua attività culturale, a quel «gusto delle cose, della vita, del rapporto con gli uomini» che il fratello Luigi gli riconosceva come tratto dominante, come «suo programma individuale e sociale, collettivo. Questo gusto traspare continuamente dal suo diario, dalle sue lettere e dalle sue parole. «I libri, le ragazze, i viaggi, i luoghi, le amicizie [scrive nell’ultima lettera], insomma una freschezza che di solito l’impegno politico, la passione intellettuale oscurano e sacrificano» (Pintor L. 1983, p. 439). A lungo si è proiettata su Giaime la nitidezza dell’epica risorgimentale, perdendo però il fascino della sua simpatia e intelligenza, della complessità della sua attività culturale che, come una salamandra nel fuoco del fascismo (secondo una nota definizione di Massimo Mila), gli consentiva di pubblicare sulle riviste, anche di stampo fascista, saggi, commenti a libri editi, traduzioni e poesie, portando avanti discorsi letterari e civili lontani dalla retorica del regime, e trasmettendo – anche parlando di letteratura, di storia e di attualità – concezioni diverse e antitetiche da quelle imperanti, ossia attuando tramite la cultura un antifascismo carsico, preludio e supporto importante ad un’attività cospirativa anche diretta che arriverà comunque a partire dal 1941. Fino alla fine degli anni ‘70, con qualche rara eccezione, proveniente tra l’altro da alcuni intellettuali di “sinistra” (in particolare si vedano gli interventi di Ruggero Zangrandi e Bianca Ceva, in Calabri 2007, pp. 351-357), il ricordo di Giaime continuò ad essere sotto l’insegna della celebrazione del «capo generazione postumo», per usare una celebre definizione di Calvino. Ma a partire dalla pubblicazione del Doppio diario qualche cosa iniziò a infrangersi. Nel 1979, infatti, numerose pagine del diario privato di Giaime, intrecciate ad una scelta di lettere familiari e non, furono proposte al pubblico e tale operazione sembrò aprire uno spiraglio anche sulla vicenda umana e infrangere la rigidità stereotipata del santino della Resistenza, restituendo, secondo le parole stesse della curatrice Mirella Serri, «l’unicità e la specificità della sua posizione ideologica» (p. x). Tuttavia, di fatto, sin dalle pagine introduttive e dalle note della stessa Serri, finalizzate in realtà a ribadire «l’immagine precisa e nitida nei connotati politici e culturali», oltre che dai vistosi tagli apportati al manoscritto, la figura di Giaime ancora una volta risultò schiacciata su un solo aspetto: definire la sua “appartenenza” e, alla luce della suggestione dell’ultima lettera, stigmatizzare il suo itinerario politico-intellettuale ingabbiandolo dentro una chiara e coerente presa di coscienza antifascista, «annuncio della svolta e dell’impegno a sinistra della cultura italiana» (p. ix). Questione questa, dell’appartenenza politica, sorta del resto sin dai primi mesi dopo la sua morte proprio per quel suo essere forse l’intellettuale più acuto e significativo della sua generazione, al punto che, nonostante non avesse aderito a nessuna organizzazione politica, in molti cercarono di assumerlo come proprio esponente, non solo attribuendogli un percorso nitido impensabile in un ragazzo di 24 anni, ma anche prevedendone in qualche modo la futura evoluzione: alcuni testimoni lo dichiarano vicino al Partito d’Azione, altri «campione di unità antifascista» (Lucio Lombardo-Radice), altri ancora «accanto agli operai, accanto ai contadini, accanto al popolo» (Massimo Mila), con un’annessione che tuttavia appare ben più contrastata e lineare di quanto si è voluto poi sostenere. Lo stesso Gerratana, infatti, introducendo Sangue d’Europa, nel 1950 si opponeva di fatto a queste annessioni indebite, scrivendo: «Un messaggio, quello [politico] di Giaime che non è di partito e che nessun partito può pretendere di monopolizzare».
Malgrado la pubblicazione delle pagine del diario e delle lettere avesse comunque fatto emergere la specificità e la soggettività del percorso individuale e del processo evolutivo intellettuale di Giaime, svolto all’interno della vischiosità del ventennio fascista, la sua pubblicazione non portò quindi a grandi mutamenti interpretativi. Tuttavia, proprio in seguito a tale lettura, un livoroso intervento di Fortini cercò di abbattere il monumento che era stato costruito scrivendo con qualche acredine d’un Giaime per natura borghese che se fosse vissuto sarebbe diventato un «commis d’état». Fortini partiva da un assunto corretto, ossia la difficoltà di individuare una cesura netta nella vita di Giaime, che marcasse un antifascismo culturale e familiare e non solo attivistico, ma cadeva nel rimproverargli la sua appartenenza a una determinata classe sociale, ingabbiando in un pregiudizio ideologico non solo una condizione umana e intellettuale ma anche un problema storiografico, che andavano invece considerati alla luce delle trasformazioni e dei bradisismi tipici della vita di un ragazzo nato nel 1919. E proprio una più acuta comprensione del fenomeno “giovani intellettuali nati sotto il fascismo” era quanto ci si sarebbe aspettati da Fortini, quasi coetaneo di Giaime, ma che non arrivò.
La stroncatura, in ogni caso, sembrò non scalfire il monumento Pintor che, molti anni più tardi, sarà messo di nuovo sotto il fuoco dal nostro misero “revisionismo”. Questa volta il caso venne costruito da Mirella Serri, già curatrice nel 1979 del Doppio diario e che nel 2002, in tempi politici totalmente mutati, ne Il breve viaggio. Giaime Pintor nella Weimar nazista (Marsilio, 2002), trascurando di citare dalla ricca documentazione inedita conservata presso l’Archivio centrale dello Stato, ‘rivelava’ con falso scoop montato ad arte dalla stampa la già ben nota partecipazione di Giaime al convegno degli scrittori tedeschi a Weimar, nell’ottobre 1941, e la recensione fatta (e respinta) per la rivista Primato di Bottai, imputandogli di avere osannato il nazismo e Goebbels. In questa maniera, finalizzando l’intera ricostruzione biografica di Giaime all’«episodio» di Weimar, già noto attraverso gli scritti di Giaime stesso, e dal 1976 raccontato con dovizia di citazioni archivistiche e più seria metodologia storica da Rosellina Mariani, Serri ripercorreva senza originalità accuse già mosse proprio dalla critica di sinistra sin da molti anni prima della pubblicazione di Doppio diario arrivando addirittura ad imputare alla storiografia di sinistra post bellica di avere volutamente occultato la vicenda per anticipare un passaggio all’antifascismo di Pintor che, secondo lei, accadde invece solo in extremis. Storiografia di sinistra che risulta essere un concetto confuso per l’autrice
se, proprio da un ambito culturale “di sinistra”, come già detto, veniva sin dal 1960 liquidata da Zangrandi e da Bianca Ceva, non senza acredine, la figura di Giaime come «individualista», «aristocratica » e, proprio per la sua presenza al convegno letterario nazista del 1942, addirittura «ambigua».
Infine, indagare la questione della presenza di Pintor all’iniziativa nazista allo scopo di indicare, ancora una volta, la data esatta del suo passaggio all’antifascismo appare del tutto fuorviante. Così facendo infatti Serri resta ancorata a una valutazione ideologica e moralistica del percorso tormentato e complesso compiuto dai giovani della «generazione del littorio» per liberarsi dalle influenze inevitabili della cultura e della società sotto cui sono nati e, soprattutto, con l’idea del «breve viaggio» non risolve la dicotomia fascismo- antifascismo. Il suo lavoro, che poteva avere il merito di liquidare l’immagine agiografica imposta dalla letteratura resistenziale, finisce in tal modo per proporre nuovamente una visione riduttiva del personaggio Pintor, imprigionata questa volta nel fascismo, secondo una nuova vulgata che ha tentato di sostituire la precedente che lo appiattiva invece sull’antifascismo. Ancora una volta sfuggiva la complessità del percorso culturale ed intellettuale di Giaime dentro il fascismo e soprattutto il quadro complessivo nel quale si trovarono a operare i giovani della generazione del littorio.
Un nuovo attacco alla figura di Giaime Pintor è arrivato nel 2007 da Mauro Canali che, sacrificando ancora una volta l’impegno documentario ad una tesi precostituita, rendendo nota l’esistenza di quattro documenti desecretati appartenenti ai Servizi segreti inglesi e relativi alle ultime ore di Giaime Pintor, gioca al “taglia e incolla” con carte d’archivio che di fatto non aggiungono niente se non alcuni particolari di colore a una vicenda ben nota, e presenta come scoop il rapporto di Giaime con i Servizi segreti britannici, un rapporto, secondo lui, volutamente taciuto da Luigi Pintor e dalla storiografia di sinistra per «consentire al Pci di appropriarsi di fatto dell’eredità politica di Giaime» (Canali 2007, p. 31). Se fa sorridere, pensando alla situazione del Sud nel dicembre 1943, il fatto di interpretare la scelta di Giaime di appoggiarsi ai servizi segreti inglesi come una scelta di campo politico, ancora una volta nel saggio di Canali si fa tabula rasa della ricca storiografia già edita sull’argomento. Sarebbe comunque stato sufficiente a Canali rileggere il volume Il colpo di Stato del 25 luglio, curato nel ‘74 da Franco Antonicelli dove sono pubblicati, oltre al noto saggio di Giaime che dà il titolo al libretto, anche i resoconti della spedizione in cui egli trovò la morte, scritti all’indomani della tragedia da Paolo Filippini (nome da partigiano di Paolo Buffa) e da Ciotti (non identificabile), suoi compagni nella fatale spedizione, oltre a quello redatto dal capitano Silvester (il tenente colonnello Massimo Salvadori, esule politico rientrato al seguito della Special Operations Executive, al cui servizio si era posto Giaime dopo l’arrivo nella Napoli appena liberata), incaricato di scortare il gruppo di partigiani fino al territorio difeso dagli Alleati.
Precedentemente alla mia biografia, edita nel 2007, Il costante piacere di vivere, in cui ho tentato di ricostruire le luci e le ombre della storia di questo ragazzo attraverso l’immenso materiale inedito conservato all’Archivio centrale di Roma, oltre che presso amici e parenti, nel 2000 ho curato per Einaudi l’epistolario di Pintor e Filomena d’Amico, ricostruito grazie alla disponibilità e alla generosità della stessa Filomena d’Amico. Proprio Filomena, lasciandomi una testimonianza su Giaime, parlando delle loro lettere, aveva detto che sarebbe stato bene pubblicarle perché da esse «è il Giaime-uomo che ne emerge, con la freschezza della sua giovinezza» (Giaime Pintor e la sua generazione, p. 296). Concetto ribadito nell’introduzione all’epistolario da Luisa Mangoni, la quale sottolinea come l’«anormalità normale» di commenti a film visti e libri letti, intrecciata a notizie tragiche legate alla guerra, aiuti a «sottrarre la figura di Pintor all’unicità in cui era stata finora situata» e la ricollochi «in una situazione e in un ambiente», consentendo anche «di individuare gli aspetti peculiari che la contraddistinguono» (Mangoni 2000, p. x). Perché questo è stato il nocciolo del ‘problema Pintor’ ossia che nello studio della sua generazione il vero problema storiografico consiste nell’affrontare la vita di chi aveva tre anni quando il fascismo prese il potere e dunque visse sempre sotto il regime, pur all’interno di famiglie chiaramente antifasciste, per cui è necessario non perdere di vista mai lo sfondo, sia quello storico sia quello esistenziale. Di fronte a casi simili le vecchie categorie di fascismo/ antifascismo non bastano, e lo stesso Giaime aveva offerto acutamente una chiave di lettura del senso storico della propria generazione quando nel famoso passo del suo Diario sulle tre forme dell’antifascismo parla della propria generazione, per la quale «astenersi fin dalla nascita, è poco più che il suicidio» (Pintor G. 1978, p. 118), come la sola che ha ancora il gioco in mano. Giaime stesso colloca quindi se stesso e i suoi coetanei in una visione postfascista. Non si può valutare la vita di un uomo, nemmeno i suoi momenti più alti, se non li si connette a quelli, meno evidenti, che li precorrono e li preludono, al retroscena umano dal quale una persona emerge.
Capire una vita e un destino significa sempre ricostruirne le tappe, tanto più per questa generazione che visse in quei tempi micidiali. Tanto più per Giaime Pintor in cui scelta politica non significò mai rinuncia ad un impegno culturale o «abolire ed eliminare l’intellettuale per il politico» (Vittoria 1979, p. 916).
Solo dunque partendo da quel «bimbo fatto di sole, creaturina di magia» (Adelaide Dore a Francesca Pintor, da Vaglia, 23 giugno 1923, in Dore 2011, p. 119), che la penna formidabile della madre, Adelaide Dore, fa rivivere lettera dopo lettera, per approdare alla fitta trama di una vita presa «dagl’impegni militari, da quelli letterari, dalle relazioni, dai viaggi, dall’instancabile e pure sempre armonica attività» (Dore ai cugini sardi, 7 agosto 1944, in Dore 2011, p. 190) si potrà, se non comprendere, almeno intuire la complessità della breve esistenza di Giaime e dare un significato concreto a quel suo gesto estremo, a quel corpo dilaniato e innaturalmente «insensibile ad ogni richiamo, inerte nel giorno e nella notte sotto un cielo invernale» (Pintor L. 1991, pp. 36-37)
Nota biografica
Giaime Pintor nasce a Roma, il 30 ottobre 1919. Il padre, Giuseppe, era il minore di cinque fratelli (prima di lui Francesca, detta Cicita, Fortunato, Pietro e Luigi) appartenenti alla piccola nobiltà cagliaritana. La madre, Adelaide Dore, donna arguta e anticonvenzionale, scrittrice per l’infanzia spiritosa e finissima, era anche lei sarda di origine, ma aveva trascorso l’adolescenza e la giovinezza a Firenze, per trasferirsi poi nel 1906, dopo un breve soggiorno bolognese, a Roma. Per motivi di lavoro del padre, impiegato presso il Provveditorato delle opere pubbliche, Giaime trascorre i primi mesi di vita a Sora, nella campagna ciociara dove impara a muovere i primi passi, avvolto dalle musiche di Verdi e dai versi dell’Iliade. Questo è solo il primo dei numerosi spostamenti che la famiglia Pintor, accresciuta nel frattempo con la nascita di Silvia (1921), detta Ghinda, deve affrontare tra il 1920 e il 1925, anni di forzato «nomadismo » durante i quali, con sempre maggiore frequenza, Adelaide è costretta a rinunciare alla presenza del figlio e a lasciarlo per lunghi periodi a Roma, affidandolo alle amorevoli cure di zia Cicita e di zio Fortunato. Il piccolo si abitua così a condurre un’esistenza autonoma e indipendente, trovando nella casa romana un ambiente particolarmente affettuoso e attento.
Nel 1925, subito dopo la nascita di Luigi, la famiglia Pintor si trasferisce a Cagliari, dove Giuseppe era stato nominato capo ufficio presso il Provveditorato delle opere pubbliche. Nella «sperduta isola dei sardi», dove nascerà Antonietta, l’ultima sorella, i Pintor vivranno anni felici, anni in cui ancora «nessun infausto presagio gravava su questo paesaggio e sulla quiete domestica » (Pintor L. 1991, p. 19). A Cagliari Giaime frequenta lo stesso liceo-ginnasio Dettori in cui avevano studiato il padre e gli zii. Proprio durante gli anni del ginnasio, però, l’insofferenza fino ad allora avvertita verso qualsiasi obbligo scolastico o legame si trasforma in ostilità nei confronti dell’ambiente e della stessa età adolescenziale, nel «bisogno di crescere per sentirsi più libero» (Pintor G. 1978, p. 5). Nell’ottobre del 1935 ottiene quindi il sospirato permesso di trasferirsi a Roma, e continuare gli studi liceali ospite della casa di zio Fortunato dove, in un clima culturale aperto e al di sopra di ogni orientamento politico, cresce e sviluppa la propria personalità respirando un liberalismo sincero e frequentando gli amici intellettuali dello zio: da Giovanni Gentile a Gioacchino Volpe, da Giuseppe Lombardo Radice a Benedetto Croce e Arturo Marpicati, il segretario del Pnf.
È in questa realtà, e non in quella scolastica, che stringe alcune delle sue amicizie più importanti. In primo luogo Lucio Lombardo Radice e le sorelle Giuseppina e Laura, altri giovani di straordinaria intelligenza e, tramite loro, Antonio Amendola, Aldo e Ugo Natoli, Paolo Bufalini, Aldo Sanna. Sin da subito instaura nei confronti dell’attività di questo gruppo, poi definito dei «giovani comunisti romani», un rapporto di simpatia e di appoggio esterno pur non aderendo mai, formalmente, a nessuna loro iniziativa, preferendo per molto tempo il mestiere dell’homme de lettres.
Nel corso del 1936 la naturale avversione da sempre nutrita contro l’istituzione scolastica spinge Giaime a sostenere la licenza liceale con un anno di anticipo. Iscrittosi a Legge a soli 17 anni, dedica alle materie giuridiche un interesse appena generico e, pur sostenendo regolarmente gli esami, preferisce destinare il suo tempo allo studio del tedesco, della cui tradizione letteraria avverte la grandezza, e alla conoscenza della letteratura europea, raggiungendo una cultura impressionate per un giovane di quella età. Alla fine di dicembre 1937, durante le esercitazioni della milizia universitaria, Pintor conosce colui che in seguito diventerà il suo amico par excellence: Mischa Kamenetzky, un giovane russo con cui instaurerà un rapporto di totale identificazione, in un gioco di reciproca imitatio che avrà il suo segno più vistoso nell’uso da parte di entrambi dello pseudonimo Ugo Stille negli articoli pubblicati sulla rubrica “XX Secolo” del settimanale Oggi di Arrigo Benedetti e Mario Pannunzio. Ugo Stille sarà poi un caso unico di nom de plume: se sarà scelto da Pintor, dopo l’8 settembre, come nome di copertura durante l’attività di partigiano, verrà assunto, dopo la sua morte, da Kamenetzky, diventato nel 1946 corrispondente dall’America per il Corriere della sera, e poi direttore, non solo per firmare gli articoli ma anche anagraficamente, trasmettendolo come cognome ai figli. Per tutto il periodo universitario, pur pagando l’obbligato contributo al regime con la partecipazione alle esercitazioni militare, l’antifascismo di Pintor è soprattutto una questione di stile e di gusto individuali che si manifestano attraverso lo sguardo ironico o di malcelata insofferenza con i quali racconta nel diario e nelle lettere il suo coinvolgimento coatto nel clima di crescente militarizzazione del paese. A partire dall’aprile del 1938, inizia una lunga serie di collaborazioni come traduttore e saggista a numerose e importanti riviste letterarie. Giaime infatti continuò a lungo a preferire un antifascismo carsico all’azione politica diretta, rifiutando come autore e come critico di esaltare la retorica del regime e quindi lo stile e il costume che esso voleva imporre agli italiani, scegliendo di utilizzare gli spazi culturali concessi, sia sulle riviste sia durante le occasioni di incontro e di confronto.
Di qui l’ostilità nei confronti di autori premiati dalla grancassa del regime come D’Annunzio, Marinetti e Papini, e il consenso ad autori di vocazione opposta come Montale, Vittorini e Jahier che egli esprime nei saggi che pubblica, a partire dal aprile del 1939, sulle pagine di Oggi e poi di altre riviste, come Letteratura, Circoli, Campo di Marte, Primato. Contemporaneamente traduce Rilke, soprattutto, ma anche Podbielski, Hesse e Trakl, di cui stupiscono le scelte mai scontate dei testi e l’eccezionalità delle traduzioni, sicuramente poco rispettose dell’originale ma che evidenziano una fedeltà più profonda, quella al ritmo interno e alla dolcezza melica.
Laureatosi a pieni voti il 18 giugno 1940, in seguito all’entrata in guerra dell’Italia, Giaime è costretto a partire, il 1° luglio, per Perugia dove ha stanza il suo reggimento, il 51° Cacciatori delle Alpi. Anche questa esperienza è per Giaime foriera di significative amicizie e di importanti esperienze personali: vi incontra le due ragazze destinate a segnare la sua vita sentimentale, Filomena d’Amico ed Ilse Bessel, e conosce Aldo Capitini tramite il quale approfondisce i rapporti con il gruppo dei liberal-socialisti di Pisa. Alla vigilia della sua partenza per l’Albania, la morte in un incidente aereo, il 7 dicembre, dello zio generale Pietro Pintor, Presidente della Commissione di armistizio dopo la resa della Francia, determina la sua chiamata a Torino, presso «la più grande organizzazione di raccomandati» (Pintor G. 1978, p. 84). Alla Ciaf Giaime stringerà amicizia con Cesare Pavese e Felice Balbo e tramite loro, oltre che di Muscetta, entrerà a far parte della Casa editrice Einaudi, dove non solo impronterà con la sua personalità la progettazione di numerose iniziative editoriali, proponendo scrittori o testi da tradurre, ma incontrerà e riuscirà a coinvolgere nella volontà di una progettazione futura postfascista giovani intellettuali antifascisti come Massimo Mila, Norberto Bobbio, Carlo Ludovico Ragghianti e Antonio Giolitti. L’impegno intellettuale caratterizzerà questi anni torinesi riempiendo la vita di Giaime con l’ampio respiro europeo che egli oppone all’autarchia nazifascista.
Dopo il 25 luglio Giaime svolge un’importante opera di intermediario, già iniziata alcuni mesi prima, sia tra i diversi gruppi antifascisti, sia tra questi ultimi e la Principessa di Piemonte. All’annuncio dell’armistizio, l’8 settembre, armato di mitra e di tricolore, è tra i giovani che incitano il popolo a combattere i tedeschi, a Porta San Paolo. Il 12 settembre tuttavia, ormai sfiduciato nelle azioni clandestine, decide di lasciare Roma e di tentare di raggiungere gli Alleati che operano nel Sud. Arriva dapprima a Brindisi, dove si era rifugiato il re, ma trovando nel Comando Supremo di Badoglio solo incertezza, decide di forzare i tempi e, nella speranza di ricevere un incarico dal servizio inglese per le operazioni speciali (SOE) o dallo stesso SIM, il servizio segreto del Regio esercito (la cui prima sezione era addetta ai contatti con i gruppi partigiani e a svolgere servizi d’informazione oltre le linee del fronte), si unisce a Edmondo Craveri e Alberto Tarchiani, giunti per parlare al maresciallo Badoglio del progetto appoggiato da Croce di formare a Napoli un corpo di volontari al comando del generale Giuseppe Pavone, e decide di partire con loro e con Max Salvadori per Napoli.
Come si legge nell’ultima lettera, Giaime sembra trovare nella Napoli liberata «un ambiente congeniale », «fra gli amici politici e i reduci dalla emigrazione » Alberto Cianca, Aldo Garosci, Dino Gentili e Alberto Tarchiani, e ottenuta l’immediata fiducia degli Alleati si impegna nella realizzazione del progetto dei Volontari della Libertà.
Ma gli accordi intercorsi tra il comando americano e Pavone si prestano a numerosi equivoci e ben presto l’organizzazione dei Gruppi Combattenti Italia naufraga travolta dal contrasto di fondo tra le aspettative dei giovani antifascisti, che mirano alla creazione di un esercito italiano libero da ogni legame monarchico, e le direttive alleate che non incoraggiano imprese militari fuori del quadro delle istituzioni esistenti, prevedendo piuttosto la formazione di piccoli nuclei di sabotatori. Intorno a Garosci, Gentili e Pintor si stringono alcuni giovani, circa una decina, animati dal desiderio di portare comunque il proprio contributo di combattenti alla guerra di Liberazione. Su richiesta di Salvadori, il maggiore Malcom Munthe, direttore del SOE sul fronte italiano, si offre «di aiutarli a passare le linee e raggiungere i gruppi armati che operavano, in territorio occupato dai Tedeschi, sotto la direzione del Comitato di Liberazione Nazionale di Roma» (Salvadori 1974, p. 52).
Per alcune settimane, il gruppo viene mandato in un campo di addestramento sull’isola di Ischia, al termine del quale Munthe stabilisce che un primo nucleo, tra cui Garosci e Pintor, provi a passare le linee alla fine di novembre, lasciando a Napoli Dino Gentili con il restante personale. Era necessario, infatti, tentare l’impresa in piccole formazioni poiché la battaglia si andava stabilizzando e le linee si stavano chiudendo. Il capitano Silvester (Salvadori) e il capitano Cooper, dell’esercito inglese, sono incaricati di scortare i partigiani fino all’estremo limite dei territori occupati dagli Alleati. La partenza da Napoli viene fissata la mattina del 29 novembre. Ma la sera prima Aldo Garosci è colto da un violento attacco di angina e dopo avere valutato i pericoli maggiori a cui la spedizione sarebbe andata incontro se fosse stata rinviata di qualche giorno, si stabilisce che Giaime prenda, fino alla base di partenza, il comando del gruppo.
I giovani partigiani lasciano Napoli la mattina del 29 novembre per giungere a piedi Castelnuovo al Volturno, estremo limite delle posizioni alleate. In questa vallata, infatti, la quinta Armata dell’esercito americano era riuscita a incunearsi tra le postazioni nemiche formando quello che sembrava essere uno dei pochi passaggi sicuri per attraversare le linee, oltrepassare le Mainarde e ricongiungersi, mediante due o tre marce notturne, alle prime formazioni armate che operavano sotto il CLN.
La spedizione viene divisa in due gruppi, il primo composto da Stille (Pintor, capo-spedizione) e Ciotti, il secondo da Filippini (Paolo Buffa, capo-gruppo), da Zanetti e da Farrese. Alle 4,30 del mattino le due formazioni lasciano l’accampamento scortati, fino all’inizio della pendice del monte, da Cooper e Salvadori: «Da quel punto ci disponemmo secondo il seguente ordine di marcia: Filippini-Farrese-Zanetti, a qualche distanza Stille-Ciotti» (P. Filippini [Buffa], Rapporto di Filippini, pp. 58-59).
La sera prima, nell’eccitazione della partenza, insieme all’ultimo «saluto frettoloso» a Dino Gentili, Giaime scrive «quel suo messaggio dall’oltretomba» mandato ad un fratello non ancora ventenne, che forse avrebbe «preferito non ricevere» (Pintor L. 1991, p. 11). Sorprendono la serenità e la compostezza con cui Giaime, in un momento di estrema vitalità e di eccitazione, riesce a raccogliere i pensieri e a congedarsi da tutto. Nella tensione che si cela dietro un apparente distacco emotivo si intravedono la riflessione intensa e la sicurezza cosciente di chi ha compiuto una scelta consapevole.
Dopo il disperato tentativo di Max Salvadori e Paolo Buffa di recuperare il corpo in mezzo al campo minato, l’intero gruppo torna a Napoli dove Paolo Filippini informa Garosci della terribile perdita:
Erano stanchissimi, calmi. Raccontarono. La partenza nella notte, attraverso l’ultimo varco possibile nelle linee, verso una cresta dove si supponevano gli avamposti tedeschi, per una strada da cui erano scesi il giorno prima tre soldati nostri che se ne venivano al di qua. Le pattuglie tedesche che avevano, durante la notte, occupato la zona. L’incontro con la pattuglia, che aveva sparato su di loro. Il ritorno dei compagni, precipitoso, nella notte, in due gruppi; uno verso la strada, l’altro verso il torrente nel fondo valle. E verso la strada Giaime aveva ricevuto nella schiena, in pieno, la scarica d’una mina che aveva fatto esplodere. Ora giaceva ancora là supino nel campo, da dove non si era potuto ritirarlo, malgrado che un ufficiale alleato, andato per tentare l’impresa, insieme con Paolo B[uffa] vi fosse stato ferito nel tentativo (Garosci 1944, p. 106).
GIAIME PINTOR a Castelnuovo a Volturno e nel Sacro Monte Marrone (DI DONATO GIANNINI)
Era il 2012 quando, sulle tracce di Giaime Pintor, ho incontrato due persone che hanno conosciuto lo scrittore durante la seconda guerra mondiale a Castelnuovo a Volturno, luogo questo, dove il giovane intellettuale ha perso la vita a ventiquattro anni colpito da una mina sulla strada che porta a Monte Marrone, montagna simbolo della resistenza e cimitero di numerosi soldati. Un incontro che a distanza di sei anni viene pubblicato, con il rammarico della scomparsa nel gennaio 2018 di Giovanni Tomassone, al quale va il ringraziamento personale e collettivo per aver conservato e tramandato la testimonianza di un’avventura di vita che i protagonisti non raccontano mai a cuor leggero: la guerra.
Castelnuovo, l’ultima casa di Giaime
Castelnuovo a Volturno è un piccolo paese in provincia di Isernia. È situato a ridosso di Monte Marrone, scenario, quest’ultimo, di numerose battaglie della seconda guerra mondiale perché breve tratto della linea Gustav. Quel luogo con circa duecento abitanti era l’ultimo avamposto degli americani prima delle postazioni tedesche: in mezzo ai due eserciti c’era una striscia di terra senza dominio disseminata dai tedeschi di mine antiuomo, mentre le case erano riempite di mitragliatrici. In quella valle l’esercito americano aveva costruito uno dei pochi varchi agibili per passare le linee e congiungersi, mediante due o tre marce forzate compiute di notte, attraverso il gruppo montuoso delle Mainarde, ai gruppi armati che operavano sotto la direzione del Comitato di Liberazione nazionale. Proprio a Castelnuovo, dopo aver percorso trenta chilometri a piedi, nel pomeriggio di martedì trenta novembre del ’43 arrivò un gruppetto di cinque uomini, formato da Giaime Pintor, il capo spedizione, che aveva trasformato il suo nome in Ugo Stille, e altri quattro compagni di avventura desiderosi di impugnare le armi contro i tedeschi. Pintor era arrivato nel piccolo paese del Molise dopo un soggiorno a Brindisi, dove era approdato al termine di un avventuroso viaggio da Roma alla “capitale del Sud”. Era stato assegnato al gabinetto Badoglio.
Partiti da Napoli il 29 novembre, erano accompagnati dal capitano Cooper e dal tenente colonnello Max Salvadori (SOE), detto il capitano Silvester, entrambi dell’esercito inglese e incaricati dal maggiore Munthe di aiutare i volontari a passare le linee e a raggiungere i partigiani dall’altra parte della montagna. Il viaggio non si presentò affatto facile poiché tutto il territorio era sotto il tiro dell’artiglieria tedesca. La spedizione quindi si rivelò alquanto ardua per la natura aspra della montagna e per la mancanza di carte topografiche. I viaggiatori erano Stille (Giaime Pintor, capo spedizione), Ciotti (non identificato), Filippini (Paolo Buffa, capo-gruppo), Zanetti e Farrese (uno di questi ultimi due è Paolo Petrucci, giovane intellettuale che morirà alle fosse Ardeatine). Verso le quattro del mattino i partigiani (divisi in gruppi così organizzati: Stille con Ciotti e Filippini, Zanetti con Farrese) lasciarono il presidio notturno e si avviarono su per la salita. Sono queste le ultime ore di Giaime Pintor, prima che finisse colpito a morte per essere incappato in un filo spinato che fungeva da trappola perché collegato con una mina <<S>> piantata nel terreno. Era sempre il 1943 e a Castelnuovo a Volturno vivevano Giovanni Tomassone e Cristina Tomassone, due giovani costretti quell’anno a nascondersi dai tedeschi.
Cristina Tomassone, ha incontrato Giaime Pintor, che ricordi ha di quei giorni?
Ricordo che ero in campagna con la mia famiglia,in una zona che si chiama Santa Lucia: era il luogo dove gli abitanti di Castelnuovo si sono rifugiati durante l’invasione dei tedeschi. In un pomeriggio vidi arrivare un giovane, alto e magro, di bella presenza, che si aggirava nel nostro piccolo paese. Con sé aveva una borsa, era silenzioso e pensieroso e si presentò senza divisa, in abiti civili. Era il 1943, il periodo in cui hanno fatto sfollare il paese, nella seconda metà dell’anno. Eravamo convinti che fosse una spia americana. Quando si avvicinò a noi ci salutò dicendoci «buongiorno»: era molto educato e le sue maniere erano inconsuete per una popolazione per la maggior parte formata da contadini. Non avevamo idea di chi fosse, visto il periodo in cui si alternavano soldati qui da noi. Soltanto dopo la sua morte siamo venuti a conoscenza di chi era. Giaime Pintor, da Roma, scrittore e intellettuale, nipote di un generale.
Durante la sosta a Castelnuovo, Giaime Pintor, dai racconti degli altri abitanti, risulta essere stato ospite di un avvocato, un certo Bruno Grande. L’avvocato Grande era una persona colta che ha vissuto molti anni a Campobasso dove lavorava senza mai abbandonare il suo paese natale, appunto Castelnuovo. Aveva studiato a Roma ed era un noto comunista, costretto a rifugiarsi e scappare dai tedeschi, infatti fu uno degli sfollati di quell’anno. Fu proprio lui a ospitare Pintor nella sua casa: è una piccola abitazione che affaccia sulla piazza, oggi diventata un museo. Durante il bombardamento venne completamente distrutta, non rimase niente, neanche il famoso pianoforte che allietò la serata della piccola delegazione.
Quanto è forte il ricordo di Giaime Pintor qui a Castelnuovo a Volturno?
Per noi Giaime è un eroe, un simbolo della Liberazione come tutti gli altri morti in questa terra e sul nostro Monte Marrone. È un privilegio essere depositari del ricordo di questo giovane ed è importante mantenere acceso il ricordo affinché le generazioni che verranno possano conoscere questo personaggio che a Castelnuovo ha dato la vita per la patria.
Castelnuovo a Volturno-22 maggio 2012, intervista a Cristina Tomassone (28/12/1924).
L’intellettuale, la Liberazione e la Montagna
La visione di Giaime Pintor verso i giovani intellettuali del tempo era la contribuzione al valore autonomo, nell’illusione che quel mondo potesse essere difeso contro le menzogne della retorica e l’invadenza dell’oscurantismo fascista. «La guerra – scrisse Pintor – ha distolto materialmente gli uomini dalle loro abitudini, li ha costretti a prendere atto con le mani e con gli occhi dei pericoli che minacciano la vita individuale, li ha persuasi che non c’è possibilità di salvezza nella neutralità e nell’isolamento».
Giovanni Tomassone (1927/2018) il 4 maggio 2012, a Castelnuovo a Volturno, racconta le sue due ore trascorse con Pintor. L’ultimo giorno della vita dell’intellettuale e scrittore vissuto con la volontà di ottenere informazioni sulle linee tedesche e raggiungere Monte Marrone. Giaime Pintor non ha mai raggiunto Monte Marrone, è morto ai suoi piedi, nei pressi del cippo che ora lo ricorda. L’epilogo della storia di un giovane intellettuale attanagliato dall’idea di dover far parte, insieme ai partigiani, della Liberazione nazionale dai tedeschi e dal suo passato al fianco del fascismo, si è consumato nel piccolo borgo delle Mainarde. Giovanni Tomassone, falegname che sulla piazza di Castelnuovo aveva la bottega, ci restituisce una storia vissuta in prima persona:
La casa in cui ha dormito Pintor si trova sulla piazza di Castelnuovo. Era Bruno Grande colui che l’ha ospitato. In questo paese eravamo rimasti in pochi: due famiglie e qualche giovane. Eravamo rifugiati nelle grotte e i giorni erano difficili perché non avevamo cibo e acqua e non potevamo lavorare.
Conoscevamo molto bene le montagne e i campi di questa zona e Giaime era a conoscenza di questo e chiese il nostro aiuto per oltrepassare le linee nemiche, divise in quattro postazioni che proteggevano il passaggio per Monte Marrone. Sentivamo ogni giorno le scariche di mitraglia. Era impossibile muoversi o raggiungere le nostre terre assediate dai tedeschi.
Ci trovavamo in una casa a ovest del paese. Lui (Giaime Pintor, nda) si recò nel nostro nascondiglio e mi chiese insistentemente di accompagnarlo lungo la mulattiera che portava alla montagna, mostrargli la strada e indicargli le postazioni nemiche. Lo portai nella parte alta del paese dove la visuale era ampia ed era assicurata la copertura dai fucili. Erano quattro le postazioni: due a ovest, dietro la spalla della montagna, una a sud ovest e una a sud. Nel mezzo la strada di campagna che proseguiva fino al sentiero di Monte Marrone. Fu dura non andare con lui anche per l’insistenza di Pintor a portarmi. Potevo essere la sua guida ma era troppo rischioso così decisi di non andare.
Era il pomeriggio del giorno prima della sua morte. Trascorremmo due ore insieme. Ricordo il suo abbigliamento e il suo portamento: un pantalone verde, quasi militare, ordinato, camicia stirata; alto, simpatico e sveglio.
Ricordo quando è venuta la famiglia e il giorno in cui è stato posizionato il cippo.
Sono morte molte persone qui a Castelnuovo. Pintor è stato uno di questi. All’epoca non avevamo i mezzi per sapere chi era e cosa facesse qui. Negli anni abbiamo compreso la persona, l’importanza e il suo obiettivo.
Nonostante la sosta di Pintor nel piccolo paese molisano si sia limitata a soli tre giorni, la morte incontrata su un punto strategico della linea Gustav ha rappresentato per gli abitanti di Castelnuovo a Volturno il simbolo della libertà, del passaggio dall’educazione fascista, che lo stesso Pintor subì, a redenzione e lotta contro il regime.
E proprio nel paese bombardato dagli americani a fini documentaristici il germanista trovò la sua fine dopo un breve ma intenso percorso nella vita intellettuale della nazione.
Tra il materiale che mi è stato consegnato c’è una poesia dal titolo Monte Marrone. L’autore è Adolfo Bo da Torino, alpino sopravvissuto alla tragica notte del 31 marzo 1944, la battaglia di Monte Marrone. In quella notte, nella notte di Pasqua, tante vite giovani venivano spezzate e s’innescava la scintilla della Liberazione. Nelle mani e negli occhi dei sopravvissuti rimane il sangue degli amici e dei nemici. E questo dolore è trasmesso nei loro scritti. Alcune di quelle persone chiamano quella montagna Sacro Monte Marrone.
Monte Marrone
Oh, leggendario e fiero monte Molisano! Tu, custode fedele del nostro eroico ardire e muto testimone delle nostre epiche gesta.
Tu, nei giorni più grigi che la nostra Patria visse, quando più profondo era in noi lo smarrimento, l’ardua e dura via della riscossa ancor c’additasti.
Noi, Alpini del Piemonte, con fiero impegno, in quella notte buia di tenera primavera, accogliemmo solennemente il nobile invito.
Armati da una volontà indomita e di piombo… Con passo sicuro scalammo roccia dopo roccia, cengia dopo cengia i tuoi impervi pendìi.
Poi, sempre più avanti, sempre più in alto nelle silenti tenebre; all’alba balzammo sulle tue vette immacolate, pugnando vittoriosi contro il Germanico invasor.
Ma come il Golgota anche Tu hai voluto i Tuoi morti in quella notte Santa del Cristo risorto; Erano tutti alpini giovani, baldi, coraggiosi e forti.
Questi nostri prodi caduti ci affidarono un messaggio: Oh cari compagni di tragedie e di gloria, che un dì ritornerete alle vostre case; di libertà e pace sia sempre il vostro linguaggio.
Abbracciate i nostri cari, lenite il lor dolore, ditelo alle nostre Mamme che noi siamo caduti da eroi per donare a tutta l’umanità un mondo migliore.
Fonte: ArcheoMolise N°33 – ANNO X – Articolo di MARIA CECILIA CALABRI
Bibliografia
Diritti d’autore: Associazione Culturale ArcheoIdea
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