Il Novecento di Rocchetta si arricchisce di singolari figure artistiche; pittori, incisori e registi transitati nell’Alta Valle del Volturno alla ricerca di scorci autentici e nuove visioni. Tra tutti domina la figura di Charles Moulin, l’eremita delle Mainarde.
L’Alta Valle del Volturno, al confine con il Lazio e l’Abruzzo, caratterizzata da una natura incontaminata circondata dagli alti monti delle Mainarde e dal fiume Volturno che qui ha le sue sorgenti e scorre a fondovalle, per la posizione strategica e le indubbie bellezze paesaggistiche ha attirato nel corso della sua storia, ed in particolare durante il Novecento, una serie di personalità artistiche di indubbio spessore. Rocchetta, con le memorie della sua abbazia e il suggestivo borgo di Castelnuovo, è stata sicuramente un attrattore per viaggiatori che inaspettatamente hanno indagato luoghi fino a quel momento poco toccati dalle rotte di un Grand Tour il quale nella prima metà del Ventesimo secolo andrà stemperandosi in superficiali viaggi organizzati. Dopo Venafro, la cittadina posta all’estremo degli itinerari consigliati dalle guide dell’Ottocento, oltre la quale pochi visitatori, fatta eccezione per sir Hamilton, Salis, Keppel Craven, Lear, Mommsen, Gregorovius e Lenormant, si erano spinti, esisteva una terra nascosta e misteriosa, poco descritta e, ancor meno, illustrata.
Nella primavera del 1922 Maurits Cornelis Escher (Leeuwarden 1898 – Laren 1972) visitò l’Italia in compagnia di alcuni amici. L’incisore sicuramente ebbe modo di visitare anche l’altopiano di Rocchetta, di osservare i resti dell’abbazia benedettina e di ammirare la rocca medievale ed è suggestivo pensare che la fila di archi in rovina del celebre “portico dei pellegrini” sia rimasta come engramma nella memoria dell’artista, riconfigurata successivamente nelle sue più celebri prospettive matematiche e geometriche.
Romeo Musa (Calice di Bedonia 1882 – Milano 1960), allievo del maestro del Liberty Adolfo De Carolis, visse in Molise dal 1924 al 1933 realizzando importanti cicli pittorici di carattere sacro e paesaggistico, oltre ad una cospicua produzione calcografica. Musa fu un autore poliedrico, incisore, illustratore, pittore, scrittore e poeta, mentre da esploratore è stato capace di indagare, come pochi nel Novecento, grazie anche all’utilizzo della fotografia, il paesaggio molisano documentandone preziosi angoli. L’attenta esplorazione del territorio unita ad un intenso lavoro preparatorio in studio conduce l’autore a realizzare scorci caratteristici e gradevolissimi, dai sentori ancora romantici, nei quali figure di contadini si muovono tra antiche rovine all’ombra di castelli dismessi o abbandonati. Dal 1931 l’artista si dedica alla serie di xilografie riguardanti i castelli molisani, unendo, nelle riuscite e sintetiche rappresentazioni, paesaggio e storia. Le immagini sono incorniciate da un riquadro ad arco ribassato e sono desunte tutte da foto scattate dall’autore stesso durante le sue peregrinazioni ed utilizzate successivamente quali studi preparatori sovente quadrettati. Tra
un nucleo di scatti, ora facenti parte delle collezioni del Museo Nazionale di Castello Pandone, rinveniamo diverse immagini dell’altopiano di Rocchetta, delle sorgenti del Volturno e delle rovine abbaziali, le quali testimoniano un’intima preferenza per tali luoghi riconfigurati sia in pittura che in incisione.
Nel 1911 giunse a Castelnuovo il pittore francese Charles Lucien Moulin (Lilla 1869 – Isernia 1960), arrivato una prima volta in Italia nel 1896, anno in cui aveva vinto il prestigioso Prix de Rome per la pittura all’Accademia di Francia sita in Villa Medici. Difficile, in assenza di documenti, dibattere sulle reali motivazioni del viaggio anche se si possono tentare plausibili ipotesi immaginando come i ripetuti soggiorni ad Anticoli Corrado, con l’immersione totale nella natura e nel lavoro, e il contatto con una popolazione semplice e rurale, abbiano spinto l’artista ad una ricerca di luoghi ancor più celati e naturali. Se teniamo per buona una fonte che lo vuole amico del pittore Camillo Innocenti, conosciuto a Roma intorno ai primi anni del secolo, possiamo legare il desiderio per questa meta ai soggiorni dell’artista romano in Abruzzo, tra Scanno e Roccaraso. Altre testimonianze plausibili riferiscono di come avesse rincontrato in Italia tale Vincenzo Tomassone, uno zampognaro castelnovese il quale aveva posato per lui a Parigi, e che questi lo avesse accompagnato in paese, oppure che avesse mantenuto i contatti con un certo Nicandro Coia, altro zampognaro conosciuto a Lille. Fatto sta che Moulin, giunto a Castelnuovo per rimanervi poche settimane, decide di trattenersi ai piedi delle Mainarde per tutta la vita, alternando all’inizio lunghi soggiorni tra Anticoli e Parigi, dove partecipa a diversi Salon, e successivamente, dopo la fine del primo conflitto mondiale, decidendo di scegliere come sua dimora una capanna costruita in cima a Monte Marrone. Gli orrori della Grande Guerra, nella quale aveva combattuto col ruolo di ufficiale, la delusione per il mercato parigino sempre più votato alle avanguardie e forse una delusione amorosa spingono il pittore, ormai quasi cinquantenne, alla vita eremitica dedicata alla bellezza. Anche se è da sfatare la voce che lo vuole stabilmente in montagna, dato che si trasferiva in alta quota solamente nei mesi estivi tornando successivamente in paese, bisogna sottolineare come da questo momento in poi, in concomitanza con l’esplosione del colore e delle impressioni della luce nelle opere, inizia la sua leggenda. C’è chi lo considera un mago, data l’abilità nell’utilizzo di erbe medicinali, chi un alchimista, c’è chi lo vuole amico degli orsi, “Orso delle Mainarde” è uno dei suoi appellativi, o capace di parlare con i serpenti; tutti, ad ogni modo, lo considerano una persona speciale, mite e bonaria, colta e preparata, ed un eccellente pittore dalla profonda umanità che chiamano, storpiando il francese, “M’ssiù Mulà”, o il “professore”.
Questo ritorno allo stato di natura, che mai si era manifestato in maniera tanto estrema negli artisti dell’ultima generazione, ad esclusione di Gauguin, non si è trasformato in una ricerca di carattere espressionista o esistenzialista bensì ha determinato un’indagine pura del dato visivo: «Vorrei rendere il pensiero attraverso la natura, esprimermi secondo quanto mi detta dentro lo scenario meraviglioso che mi circonda e nel quale io trovo la pace dello spirito». Abbandonata la pittura di Storia, di stampo accademico, e con essa l’olio e la tempera, l’artista predilige i pastelli e lo studio en plein air elaborando un’ipotesi di veduta costruita sulla luce e sul colore retinico, non già la sintesi impressionista ma la pura visione ottica, neoplatonica. Il risultato è un’immagine realistica ma trasfigurata: «Le cose devono essere studiate per degli anni per cogliere la luce. Se così
facendo le vediamo come difficilmente si lasciano vedere, cioè senza confini troppo precisi, la nostra allora non è più una semplice rappresentazione
della natura, bensì la nostra pittura».
La sua produzione, in ricordo dei temi mitologici e pompier, si anima di figure misteriche, satiri e ninfe, ma non perde mai di vista la resa del paesaggio e dell’ambiente rurale. Dal 1924 al 1927 è negli Stati Uniti dove riceveva molte commissioni da parte della ricca borghesia newyorkese ma il distacco dall’amato Molise, come la nostalgia per la luce delle Mainarde, è così forte che dopo quest’ultima lunga assenza non lascerà più i territori di Rocchetta, rimanendovi fino alla morte. Agli inizi degli anni Trenta risale anche l’incontro con un altro grande pittore molisano suo contemporaneo:
Marcello Scarano (Siena 1901 – Campobasso 1962). Una delle rare testimonianze scritte di Scarano è del 1936 e porta il titolo di Incanto delle
Mainarde. L’artista, dopo aver soggiornato in diverse città della penisola ed essersi accostato a tanti movimenti artistici, in seguito ad una delusione amorosa vive un momento di crisi spirituale e creativa e si rifugia nella sua terra natale. Sceglie pertanto di andare in una sorta di eremitaggio verso l’Alto Molise e ciò che scopre lo illumina:
«Era la rivelazione inaspettata che mai la natura aveva saputo darmi prima d’allora: era il cielo sereno e trasparente, tinto di rosa e di viola, erano le grandi masse di olivi con le cime quasi azzurre […] tutto aveva per sfondo le Mainarde che si risvegliavano in una gloria di luce e di colore».
Scarano, suggestionato sicuramente dalla pittura di luce di Moulin – e il paesaggio con le Mainarde è probabilmente l’opera che maggiormente si avvicina alle vedute del francese – torna alle origini della sua arte spogliandosi di “artificiosi abbellimenti” per riscoprire, attraverso il paesaggio, la vera forza del disegno. La cifra stilistica del pittore negli ultimi anni, così personale e sentita, trasmette invero il dramma dell’esistenza e con esso racconta la nascosta condizione della gente molisana senza mai cadere nel retorico o nel folklore, al contrario dell’opzione realistica dell’artista francese.
Altro pittore che probabilmente ebbe modo di conoscere Moulin, giunto per strade ancor più singolari nell’Alta Valle del Volturno, è William Grosvenor Congdon (Providence 1912 – Milano 1998). Nato da una facoltosa famiglia di industriali, dopo aver frequentato fino al 1934 la Yale University, William inizia a studiare pittura sotto l’egida di Henry Hensche aprendo uno studio come scultore nel 1940. Allo scoppio della guerra, arruolatosi nell’American Field Service, un servizio volontario di sanità al seguito dell’esercito Americano, è addestrato come autista di ambulanze e assegnato alle truppe di invasione in Italia, operando soprattutto negli Abruzzi. Terminata la guerra Congdon rimane in Italia, lavorando insieme agli architetti del genio civile nella ricostruzione delle aree più colpite dal conflitto, soprattutto nei territori dell’alto Molise (ricordiamo a riguardo la distruzione “cinematografica” di Castelnuovo), mentre nel 1948 si trasferisce a New York dove conosce i principali esponenti dell’Espressionismo astratto americano diventandone uno degli esponenti. Successivamente il ritorno in Italia, la suggestione di Venezia, la conversione al cattolicesimo e la creazione di una pittura materica e densa, raro equilibrio tra astrattismo e tradizione figurativa europea, caratterizzano la sua più recente produzione. I disegni del periodo di guerra costituiscono le prime prove autonome e non accademiche di Congdon. Mentre è ambulanziere realizza “in presa diretta” schizzi a matita, carboncino e sanguigna su fogli di taccuino ed accanto ai disegni dei moribondi si prodiga in una toccante produzione di ritratti decisamente meno espressionisti ma parimenti drammatici. Questi ritratti, molti dei quali molisani, è interessante metterli a confronto con le letture dell’anima che realizza Moulin quando si accosta al ritratto; mentre è rivelatore un paesaggio del 1950 dal titolo Abruzzi ma che ricorda molto, nel profilo, la sagoma delle Mainarde divenute nel quadro terra e materia opaca estremamente evocativa. La scelta di una veduta naturale induce l’artista a una pittura più libera ed informale, pur ancorata al dato visivo, che dà luogo a una tipica composizione a più dimensioni: il tessuto cromatico molto stratificato, ove sono presenti i consueti sgocciolamenti, è movimentato pertanto dalla fitta trama delle incisioni. Ancora da approfondire, invece, la presenza in tempo di guerra di Renato Guttuso (Bagheria 1911 – Roma 1987), in quel periodo staffetta partigiana, secondo quanto reca impressa una porta di legno conservata presso il Museo internazionale delle guerre mondiali di Rocchetta. Il disegno di un nudo stilizzato, recante la sua firma, ha destato nel tempo grande curiosità.
Michele Peri (Rocchetta al Volturno 1947), artista del luogo ed uno dei più significativi scultori molisani degli ultimi decenni, ha sempre lavorato con materiali offerti dal territorio sperimentando negli anni Settanta anche la Land Art. Alcune opere degli anni Ottanta (sua anche la maschera del Cervo di Castelnuovo) dimostrano la tendenza verso un’installazione di carattere totemico capace di evocare le forze ctonie del luogo mentre la sperimentazione di strutture instabili, nella ricerca di una memoria archetipica capace di divenire impressione di forma e al contempo organismo astratto e auto significante, ha condotto verso lavori modulari e prismatici. L’artista opera per stratificazioni, investigando il tempo e il cosmo, impostando le fondamenta di un edificio virtuale del quale percepiamo la struttura ma mai il suo organismo. Le installazioni diventano miti di fondazione nel rapporto che crea tra ordine terrestre, spazio vitale e tempo ciclico mentre l’utilizzo di precisi punti cardinali, di snodi e simboli/segnali determina una dimensione interna ed intima, il riflesso del mondo materiale attraverso forme primigenie. Allo stesso momento il blocco delle storie, il loro ancoraggio a supporti precari e alla dimensione espositiva dei luoghi, diviene trasmutazione della memoria verso forme del possibile. Nelle opere di Peri ogni punto di superficie può essere preso per centro del mondo, per veicolo di salvezza, nell’irraggiamento caotico di tutte le direttrici, nella ricerca modulare e compositiva, quasi naturale, di un confine che comprende un’idea aumentata dello spazio, orientato non verso un nucleo lacerato bensì verso il limite, la periferia dello sguardo, l’estremità dello spazio e dell’istante, la soglia.
Come non menzionare, infine, anche la presenza indiretta di Pier Paolo Pasolini in un film scritto e diretto da Sergio Citti (Roma 1933 – Roma 2005) il quale, riprendendo un soggetto del poeta, nei I Magi Randagi del 1996 porta sullo schermo il viaggio di tre saltimbanchi interpretati rispettivamente da Silvio Orlando, Rolf Zacher e Patrick Bauchau. I tre artisti durante varie peregrinazioni – quella iniziale è ambientata nel borgo medievale e abbandonato di Rocchetta – sono costretti a fuggire e trovano posto in un presepe vivente dove interpretano i Magi. Questa volta la loro interpretazione è così ben riuscita che convincono gli abitanti a mettere al mondo nuovi bambini. Una notte, all’improvviso, nel cielo compare una stella cometa e i tre comprendono di avere un compito davvero importante: cercare il nuovo Bambino Gesù.
Fonte: ArcheoMolise N°33 – ANNO X – Articolo di TOMMASO EVANGELISTA
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